Centro Medico Psicologico Torinese

La cognizione del dolore a Manhattan: “The genius and the opera singer” di Vanessa Stockley al TFF.

Ruth, ex cantante lirica ultranovantenne, e sua figlia Jessica, di 55 anni e disoccupata, vivono insieme da sempre in un appartamentino caotico e pittoresco nel West Village a New York. Il rapporto è simbiotico e terribile, costellato dalle crisi di rabbia e rancore di Jessica contro la madre, accusata dalla figlia di averle rovinato la vita; ma le giornate di Ruth e Jessica attraversano pure momenti giocosi, anche grazie alla presenza di altri due personaggi: la cagnolina Angelina Jolie (sic), e Robert, l’intermittente fidanzato “part-time” di Jessica. E’ quest’ultimo, ad esempio, a intrattenere periodicamente Ruth cantando insieme qualche vecchio successo di Frank Sinatra.

Questo il soggetto, in estrema sintesi, di “The genius and the opera singer” di Vanessa Stockley, presentato in questi giorni al Torino Film Festival. “The genius” sarebbe Jessica, l’intrattabile ma devota figlia: donna certamente di notevole intelligenza, espressa in una parlantina tagliente che non ammette repliche e dall’ironia molto newyorkese, ma alle prese con un bilancio esistenziale pesante, segnato com’è dall’essere stata incapace di costruirsi una vita propria, fuori dal cono d’ombra della madre. L’unica relazione al di fuori del claustrofilo rapporto con la madre è appunto quella con Robert, a sua volta segnato da una vita difficile e ai limiti dell’emarginazione, peraltro soltanto intuibile: almeno come personaggio “narrativo”, Robert non ha una storia di vita chiara e una famiglia alle proprie spalle, e forse solo in questo modo, come figura bidimensionale, riesce a inserirsi nel rapporto tra Jessica e Ruth, che è invece saturo di “storia”, seminata ovunque nell’appartamento: vecchie foto e ritratti, pile di libri e ricordi, vecchie incisioni della madre, tra cui, per inciso, una pregevole e commovente interpretazione discografica della pucciniana “Mi chiamano Mimì”, scovata da qualche parte da Robert.
Non si può fare a meno di pensare all’asfittico rapporto tra Don Gonzalo Pirobutirro e l’anziana madre, i protagonisti di “La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda. Anche Don Gonzalo, che a quarant’anni abita con la madre vedova, è accecato da periodici accessi di rabbia furibonda e di rancore verso di lei, cui è peraltro disperatamente e teneramente legato. Ed entrambi vivono schiacciati dal “monumento” della storia famigliare: la villa costruita dal padre, per mantenere la quale vivono pressoché in miseria. E anche il passato di Ruth, cantante lirica e donna bella ed elegante, è veramente “monumentale” ed intrappola entrambe ma soprattutto Jessica, novella e inconsueta Don Gonzalo in versione moderna.
Questa la storia strettamente “testuale”, e si potrebbe ragionare a lungo sulle misteriose leggi psicologiche che alle volte inchiodano i figli, castrandone irrimediabilmente le potenzialità di crescita. Ma il montaggio e gli accenni di colonna sonora introducono, almeno dal nostro punto di vista, un altro personaggio in scena, forse il vero personaggio del film: il Tempo. Ed è su questo piano che l’opera di Vanessa Stockley raggiunge una dignità poetica, andando al di là di un mero docufilm. Le registrazioni audio della vocina di Jessica bambina, che aprono e chiudono il film, e con le quali dialoga distrattamente Robert in una sorprendente comunicazione trans-temporale tra l’oggi e gli anni ‘60, la musica della Bohème o della Traviata che si intreccia con gli scorci quasi onirici di una New York colta dalle finestre dell’appartamento, il ritmo stesso del montaggio: è questa dimensione stilistica del film a parlarci del Tempo. Il tempo congelato e circolare di Ruth e Jessica certamente, ma anche il tempo esistenziale di ciascuno di noi, irrimediabilmente convinti che la nostra vita individuale non abbia mai un termine. E La Bohème, inno per antonomasia alla fugacità della giovinezza in particolare e della vita in generale, si accorda in modo toccante e malinconico con la distante e impersonale metropoli all’interno della quale madre e figlia stanno consumando la propria esistenza. Se è vero che “essere consapevoli è non essere nel tempo”, perché “il tempo passato e il tempo futuro non permettono che poca consapevolezza”, come ci ricorda TS Eliot, allora Jessica e Ruth, pur nella loro stravaganza, diventano cifra dell’esperienza umana e un invito vivente a liberarsi dal “tempo monumentale” del proprio passato. E’ questo in fondo l’obbiettivo della psicoanalisi (ingenuamente derisa da Jessica), quel singolare viaggio nel tempo per emanciparsi dal tempo. Diversamente, ci si condanna, come nel caso estremo delle protagoniste del film, a una eterna ripetizione – senza sviluppo e senza prospettiva – del presente, presente asfittico e paralizzante, di cui non poteva esistere miglior “correlativo oggettivo”, nel senso eliotiano del termine, del piccolo soffocante appartamento che fa da sfondo alle vicende di Jessica e Ruth.